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News e appuntamenti


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IN LIBRERIA

26 aprile 2010

Condanna a vita



















"... Noi siamo condannati a vivere una vita, e dunque la nostra è una condanna a vita, per uno o più delitti, chi lo sa?, che non abbiamo commesso, oppure che commettiamo di nuovo per altri che verranno dopo di noi. Abbiamo acquistato in capacità di resistere, nulla ormai può farci capitolare, non siamo più attaccati alla vita ma nemmeno la svendiamo a un prezzo troppo basso, questo era quello che avrei voluto dire, ma non l’ho detto. Tutti qualche volta alziamo la testa credendo di dover dire la verità o quella che sembra la verità, e poi di nuovo la incassiamo nelle spalle. Questo è tutto."

                                                                                            "La cantina", Thomas Bernhard

22 aprile 2010

Pittore, se vuoi la fama diventa mediocre

"Pittore se vuoi la fama diventa Mediocre", si intitolava l'articolo della pagina di cultura del Giornale di mercoledì 21 aprile un articolo di Luca Beatrice che approvo parola per parola e non mi serve nemmeno tanto commentare perché è come se mi leggesse nel pensiero, e ovviamente non solo a me, che qualche perplessità sull'arte concettuale contemporanea  mi viene.Così tutto l'apparato che riguarda la cultura attuale naturalmente.

di Luca Beatrice
Sciatto, trasandato, incerto e con una punta di arroganza: questo è il tipo di artista esaltato dai critici Per i quali vendere molti quadri è da piccolo borghese. Eppure in Italia i giovani di valore non mancano
Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro figurativo di buona (anche se non eccelsa) qualità. Appendiamolo per una settimana alle pareti del ristorante pizzeria Marechiaro. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono sbrigativamente «commerciali». Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto o di un museo egualmente conclamato. Attenzione, sempre lo stesso quadro!
Nel primo caso avremo l’elaborato domenicale di un dilettante, che per hobby ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a cento-duecento euro. Nel secondo, il dipinto aumenterà di valore ma non troppo (qualche migliaia di euro), perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso, il quadro prenderà la strada maestra del successo, lodato dagli addetti ai lavori, inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, in quanto il suo valore è stato certificato da Bonami o da Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube. Di tutto sentiremo discutere, tranne che di qualità intrinseca dell’opera.
Dalle prime avanguardie del Novecento è andato infatti radicalizzandosi quell’atteggiamento per cui è il contesto, e solo il contesto, ad attribuire valore all’arte. Per secoli i musei erano pinacoteche piene zeppe di quadri: capolavori, maestri, scuole, epigoni e croste che entravano di diritto a far parte delle collezioni pubbliche in quanto superfici dipinte, dunque riconosciute da tutti come arte. Poi è arrivato il gesto geniale e provocatorio di Marcel Duchamp il quale, piazzando un orinatoio dentro una sala bianca, ci ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì, bastava la certificazione del contesto e l’accordo tra i diversi attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri.

Entrando oggi in uno qualsiasi dei santuari globali dell’arte contemporanea ci troveremo di fronte a una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste o forse avanzi di piastrelle, readymade postecnologici, scritte... e a nessuno verrebbe mai il dubbio che non si tratti di arte. Se stanno lì dentro, nel museo, sono arte e basta. E se sono cose brutte e inutili? Chissenefrega! Il paradosso è che la pittura, oggi, è l’ultimo readymade. In quanto linguaggio artistico per definizione e per storia, deve «meritarsi», faticando assai, l’inclusione in posti così cool and trendy che con il passato non vogliono aver niente a che fare.
Domanda: ma se sono un bravo pittore, come posso essere preso in considerazione dai curatori alla moda? Un bel casino, ragazzo mio! Intanto vedi di non essere troppo bravo, troppo capace e virtuoso. Sii sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipingi se puoi come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno ti dà del pittore, ribellati, guardalo in cagnesco e spiegagli che tu sei «un artista che usa la pittura». Ricorda: ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto «tormento ed estasi»; prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche galleria «di mercato» sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del commerciale. Se vendi parecchi quadri ti accuseranno di interpretare il cattivo gusto della piccola borghesia.

E allora? Se proprio ci tieni, almeno in apparenza rimani uno sfigato qualsiasi e comportati da artista, non da ragioniere. E non dire che hai dei soldi, sennò ti danno della puttana.
Altra regola importantissima: sostieni di produrre pochissimo, quattro o cinque quadri l’anno, perché il tuo stile è lungo, tormentato, difficile. E poi, altro must: non rimanere prigioniero della bidimensionalità, del quadro tradizionale, che lo capisce anche la massaia. Espanditi nello spazio, sfonda gli argini, contamina la superficie con materiali anomali, inserisci oggetti e, mi raccomando, ogni tanto fai una fotografia o un’installazione, da abbandonare lì per caso. E infine, ci vuole anche una discreta fortuna, perché l’accettazione di un pittore nel contesto dell’arte contemporanea spesso rappresenta un autentico mistero. Una che passa per essere davvero brava, e di conseguenza costosa, è la romagnola Margherita Manzelli. Tra i più giovani vanno di moda Pietro Roccasalva, imitatore senza particolare qualità e fotocopiatore di Bacon, Simone Berti, autore di strambi animali-macchina su fondo rigorosamente bianco. Secondo i critici killer della pittura, in Italia non ci sarebbe altro.
Invece ignorano o snobbano le decine e decine di ottimi pittori che in un Paese libero e non provinciale come il nostro godrebbero di ben altro trattamento. Alcuni di loro, ma senza esaurire l’ampia disponibilità, Beatrice Buscaroli e io li abbiamo invitati alla Biennale di Venezia nel 2009, e tra poco ne parleremo, contando che Vittorio Sgarbi faccia altrettanto nel suo Padiglione Italia 2011. Chi segnalare tra le decine di pittori «under quaranta» meritevoli oggi d’attenzione? Certamente nella linea che si ispira al disegno, all’illustrazione, alla sintesi e all’immediatezza, vanno considerati Gabriele Picco, Fausto Gilberti, Andrea Mastrovito, Laurina Paperina, Laboratorio Saccardi, Erica il Cane, Blu (questi ultimi due appartengono alla corrente dei nuovi graffitisti presentati nella mostra «Street Art, Sweet Art», del Pac a Milano nel 2007). Tra i pittori «puri» suggeriamo senz’altro di prestare attenzione a Gabriele Arruzzo e Manuele Cerutti, mentre tra coloro che usano questo linguaggio mescolandolo ad altri, la cosiddetta Expanded Painting, molto buono risulta il duo fiorentino Pieralli & Favi.


                                                                                              Luca Beatrice

20 aprile 2010

Freak Schow

Ieri notte mi è capitato di guardare quel format  demenziale chiamato Italian got talent show, dove si presentavano dei ragazzi, delle persone ad esibirsi portando le proprie abilità, che andavano dall'esibizione canora, lancio di coltelli, e svariate altre, ovviamente ogni esibizione doveva passare sotto il giudizio della giuria formata dalla De Filippi, Gerri Scotti, e un produttore della Sony.

Mi ha colpito la presenza di alcune persone chiaramente molto problematiche, e in questo senso trovo molto poco rispettoso che si trovassero lì, non perché non sia giusto che quelli problematici se ne stiano in tv e quindi che se ne stiano a casa propria, ma perché in quel contesto non diventano che un fenomeno da baraccone o meglio da baldraccone potremo dire. Con gran divertimento del pubblico, ma con grandi danni a loro che pensano davvero di ricevere una vera gratificazione nel trovarsi lì, magari con qualche aspettativa nel facile agognato mondo dello spettacolo, "in fin dei conti ci vanno quasi tutti e molti fanno pure i soldi, perché io no?" e da lì aspettativi e rancori irrisolti, vedendo già i loro occhi delle gran aspettative e dei gran amareggiamenti alle bocciature, o alle critiche dei tre giurati. E su questo è veramente il sistema innescato che è lurido alla base. un tempo c'era la corrida e tutto si fermava lì, oggi ci sono questi programmi con l'idea che dopo puoi essere chiamato a destra o manca, quindi esistere per quelli che ti guardano.


Fatto sta, che in questo format oltre gli altri disperati si presenta un ragazzo vesito da chef. Nel bancone preparato ci sono diversi ingredienti dentro delle ciotole. In queste ciotole LUI aveva scelto di mettere cibo per cane, cibo per gatti, nutella, limone, e altri ingredienti che non ricordo. Entra tutto saltellante dicendo che la sua esibizione consiste nella scelta di alcuni di quei ingredienti da parte della giuria, una volta scelti lui li avrebbe messi in un mixer e una volta frullati - avrebbe ingurgitato il preparato e in base a questo avrebbe improvvisato l'esibizione che sarebbe stata giudicata.
De Filippi e Scotti si rifiutano di proseguire l'esibizione mentre il terzo della giuria per senso di provocazione fa mescolare  il cibo per gatti con la nutella  perché no, un pò di limone che c'ha le vitamine dice.
Il ragazzo chef frulla il tutto con un bicchiere d'acqua e tra gli sguardi schifati sta per ingurgitare, lo fermano appena in tempo.

Ecco, senza saperlo quel ragazzo è stata la metafora esatta di ciò che provoca l'idea della televisione d'oggi nei ragazzi special modo, ovvero: "datemi da bere anche la merda purché mi diate la possibilità di farmi vedere" quindi secondo la loro logica di esistere. 


Questa è stata davvero come performance davvero perfetta come metafora per esprimere quello che più penso oggi su questi fenomeni.


La De Filippi stessa che non amo più per ciò che rappresenta che per quello che è, gli dice che quello non è il modo giusto per farsi notare, anche se certo un bella gran mano lei lo dà perché questo distorto esibizionismo abbia spazio. La risposta del ragazzo è stata: "almeno qualcuno avrò colpito".
e questa è l'ennesima testimonianza che non importa come e perché, l'importante è apparire anche se da  Freak morale.




17 aprile 2010

Dormire

Il sonno, il sonno, quando posso dormire soprattutto nel pomeriggio con quel senso  di abbandona, di oblio che porta, e di straniamento, per tutte quelle volte che avrei voluto scrivere quel che provavo senza riuscirci, un passaggio di André Gide, dice alla perfezione quello che sempre averei voluto dire...






[…] fu un periodo inquieto di attesa e come la traversata di una palude. Sprofondavo in prostrazioni di sonno da cui non mi guariva il dormire. Andavo a letto dopo il pranzo; dormivo, mi svegliavo ancor più stanco, l’animo intorpidito come per una metamorfosi. Oscure operazioni dell’essere: travaglio latente, genesi di ignoto, parti laboriosi; sonnolenze, attese; come le crisalidi e le ninfe, io dormivo; […] Ah! Venga finalmente - supplicavo - la crisi acuta, la malattia, il dolore vivo! E il mio cervello si paragonava a cieli di burrasca, ingombri di nuvole grevi, dove si respira a fatica, dove tutto è in attesa del lampo che squarci quegli otri fuligginosi, carichi d’umore, che celano l’azzurro. Quanto durerete, attese, e una volta finite, ci rimarrà di che vivere? - Attese! attese di che? gridavo. Che poteva accadere che non nascesse da noi? E che poteva accadere di noi che già non conoscessimo?

André Gide, Les nourritures terrestres

13 aprile 2010

La tecnologia mi fa dannare

E' un periodo che la tecnologia mi fa dannare.
Word non effettua il salvataggio automatico, il blog non carica le immagini (mi tocca scrivere il testo salvarlo in bozze e caricarlo da un altro pc),come se non bastasse c'è un virus che ogni tanto si innesca e mi fa scrivere le parole al contrario. Son quelle cose che mettono ciliegine sulle torte, che ieri tra l'altro non mi è riuscita, una bella torta molle di banana poco cotta. Uffa,.

Naturalmente causa malfunzionamenti word mentre correggevo il libro ho perso un'ora  mezza di correzione, scrivere le ricette sul blog senza l'immagine mi sembrava una cosa inutile, e poi nemmeno la soddisfazione di potermi consolare con la torta di banana che non si è cotta - così e mentre scrivevo una mail incazzata ad una mia amica per tutte queste cose le parole andavano all'indietro e non riuscivo proprio a scrivere.
Insomma non mi rimaneva proprio che tornarmene a letto, e facendo il conto se ogni volta che insorge una delusione vado a letto ho fatto media e da quando esisto non vado mail di media sotto le dieci ore giornaliere di sonno.
Kafka scriveva i migliori racconto nel dormiveglia, mi dico sempre.
Che a me anche vengono delle immagini che mi paiono bellissimi nei dormiveglia, ma non sono Kafka e nemmeno uno scarafaggio, avrebbe pensato Doestoevkij, insomma mi tocca accontentarmi dopo il dormiveglia di andare a farmi un tè, con poca teina, sennò gli attacchi di panico fanno festa, poi si pensa alla cena che pensar a cosa cucinare è la cosa migliore delle giornata, poi un film e poi a letto, così facendo due conti a 30 quasi 31 anni ho dormito quello che le persone sane che lavorano sanamente di solito dormono fino ai 40 anni, Se uno potesse avere indietro gli anno che ha dormito accidenti !
ogni tanto lo penso, se il tempo passasse solo quando siamo svegli, penso che non supererei i 15 anni.
Ma l cose non vanno così, ed io sono molto arrabbiata con gli informatici che devono fare computer e programmi indistruttibili.

10 aprile 2010

Louis Ferdinad Céline in foto: Intervista ad Andrea Lombardi


LOUIS FERDINAND CELINE IN FOTO un libro a cura di ANDREA LOMBARDI: dall'infanzia di Céline alla prima guerra mondiale. Intervista al curatore del libro.










 Louis Ferdinand Céline in foto, un libro fatto di saggi e interviste inedite in Italia, e niente di meno che una raccolta di fotografie più o meno conosciute e sconosciute, dello stesso Céline. Come mai la scelta di affrontare in maniera piuttosto personale (nel senso di ideazione e realizzazione)  un lavoro su di  un autore così importante? Cosa ha rappresentato per te Céline, e cosa ti ha suggerito?

Non essendo né un critico letterario né un esperto di letteratura francese, fare un libro di foto era la mia unica chance di pubblicare qualcosa su Céline!

Scherzi a parte (o quasi), l’idea del libro è nata dal blog celine.blogspot.com , da me creato qualche anno fa. Lo stesso blog era nato soltanto come un piccolo spazio personale, tanto per provare la piattaforma blogger… sennonché, senza saperlo, avevo invece riempito un grosso vuoto nell’etere informatico: in effetti non vi era alcun sito specifico in italiano dedicato a Céline, e in breve tempo mi sono trovato circondato da un numero crescente di céliniani italiani che visitavano e sostenevano il sito; ormai sono degli amici veri e propri, e ho avuto anche la fortuna di conoscerne di persona diversi. Così, anche grazie a un céliniano “professionista”, Gilberto Tura, ho sentito la necessità di fare qualcosa che non fosse solo il “copia-incolla” di una biobibliografia di Céline, ma di dare ai “miei” amici e appassionati di Céline qualcosa di diverso, ricordando questo “gigante spezzato” traducendo alcune sue interviste e ricordi di chi lo aveva conosciuto, dalla moglie Lucette Alamnsor, allo scrittore Michel Aymè, dall’ex Ministro di Vichy Abel Bonnard , all’attrice Arletty, al grande scultore Arno Breker, Gen Paul, Rebatet… in massima parte materiale inedito in Italia, prima postato sul blog e quindi pubblicato nel libro “Louis-Ferdinand Céline in foto”, con altri scritti, saggi critico letterari, e una rassegna fotografica comprendente l’infanzia di Céline, la prima guerra mondiale, gli anni del successo del Viaggio al termine della notte e Morte a credito, l’Occupazione, l’esilio in Danimarca e il termine della notte a Meudon…

Céline per me rappresenterà sempre l’emozione di leggere il Viaggio da adolescente, uno dei pochi libri che letti al momento giusto ti cambiano la tua visione della vita.

Per le traduzioni delle varie interviste di Céline e su Céline che non erano mai state pubblicate in Italia; su che criterio ti sei appoggiato per poter fare un buon lavoro, sicuramente di non facile realizzazione?

Il paradosso è che ho studiato francese solo alle medie, mentre traduco molto di più, anche professionalmente – traduco testi di storia militare - dall’inglese!
Però per tradurre Céline, devi innanzitutto sentire la sua “petite musique”… anche nella sua lettera più breve, Céline è là; una volta che hai capito la sua “musica”, leggendolo e rileggendolo per anni, il più è fatto.


Ricordiamo che qualche tempo fa, curasti un Pamphlet di inferocite lettere di Céline  "al già diventato succubo Sartre"  come lui stesso dice...

Questa è stata la mia prima possibilità di cimentarmi, nel mio piccolissimo, con Céline… dell’Agitato in provetta c’era stata già una prima traduzione italiana, (poi ristampata), di difficile reperibilità… la brevità del pamphlet mi aveva incoraggiato a tentare: facemmo un piccolo libretto, con il testo francese e la traduzione a fronte; ricordo le mie risate man mano che traducevo i sempre più pirotecnici insulti di Céline a Sartre, anzi, Tartre!


Céline, discusso, idealizzato, amato, odiato, cosa si sbaglia ancora oggi nell'idea di Céline?

Guarda, in teoria per non sbagliarsi basterebbe leggerlo e basta.

Ultimamente, con quella mancanza di equilibrio tipicamente italiana, dopo che negli ultimi anni, in Italia, si era tornati alla demonizzazione di Céline o al massimo agli ipocriti distinguo, in alcuni recenti saggi si è passati a incensarlo a priori, condonando i lati negativi di Céline, reali o presunti, in nome di un trasporto emotivo, e questo è comprensibile, o di un interesse a portarlo, una volta emendati i suoi difetti, nella propria parte politica; in un caso recente, tanto per cambiare rispetto all’incasellamento di Céline nel milieu della destra radicale, Céline è stato arruolato d’ufficio nel pantheon degli autori comunisti… sulla base attendibilissima di una frase e mezza di Céline, peraltro scritta nel contesto vorticosamente polemico dei pamphlet, ed espunta dall’intero corpo di opere e lettere dello scrittore francese, il quale, peraltro, aveva lucidamente sgomberato il campo da ogni possibile dubbio nel suo discorso di Medan; cito dal “Louis-Ferdinand Céline in foto”:

[…] durante le celebrazioni dell’anniversario della morte di Emile Zola, Céline, il primo ottobre 1934, nel suo discorso di Medan, rifiuta sia la società capitalista sia quella marxista, sconcertando la sinistra francese, che aveva tentato di portare nel suo alveo lo scrittore. Céline, infatti, dichiarò:

Noi siamo giunti alla fine di venti secoli di civilizzazione e, comunque, nessun regime potrebbe resistere a due mesi di verità. Io voglio dire che vedo la società marxista uguale alla nostra borghese ed a quelle fasciste.



Cosa distingue il Céline uomo dal Céline autore se è possibile fare distinzione?

No, non credo si possano fare distinzioni tra il Céline uomo e Céline autore, mentre, ed è lui stesso ad averlo sempre stigmatizzato, il grande errore che si può fare è confondere Bardamu con Céline; molti equivoci sono nati – e parlo della critica, anche grande - considerando il Voyage come un’autobiografia di Céline.


Qual'è il grande insegnamento di Céline? E quanto centra o non c'entra con l'identità nazional-politica?

Il grande insegnamento di Céline è, a mio avviso, quello che si debba continuare a vedere nell’uomo un briciolo di umanità anche quando ci siamo resi già da tempo conto che l’umanità, di umanità ne ha ben poca.

Quindi direi che la politica non c’entra proprio; c’entra l’uomo.


Si continuerà sempre a parlare di Céline e l'antisemitismo? In Bagatelle per un massacro, e  La scuola dei cadaveri, attribuisce la rovina della Francia agli ebrei, ma lui stesso dichiara che il solo vero crimine che ha commesso è stato di credere nella salvaguardia della propria nazione, e in ideali sbagliati, ma tutto inizia e finisce nel credere in un ideale, non nel compierne azioni criminose in maniera attiva...

Dovrebbe esser così chiaro che per scannarsi le nazioni e gli eserciti non aspettano certo le tre righe scritte da uno scrittore o dall’altro!

Céline ha avuto il torto imperdonabile di essere un uomo libero, perciò, come scrisse Dominique de Roux, doveva essere distrutto, è stato distrutto, dai suoi “confratelli letterari”. Se si fa parte di una combriccola, di destra, sinistra, bianca rossa o nera tutto si perdona o giustifica; il voler essere liberi, il non cercare appoggi nelle consorterie, mette paura, invidia e gelosia. L’”antisemitismo”, il presunto –anzi inesistente - collaborazionismo di Céline lo hanno reso vulnerabile ai piccoli uomini invidiosi del suo stile, come Sartre.


Perché Bagatelle per un massacro continua ad essere il suo libro più conosciuto, più esemplare, in cui sembra si identifica maggiormente la figura di Céline...

Dai, non sono d’accordo: in realtà il libro più conosciuto rimane il Viaggio; poi va da sé che se tu guardi le stringhe su Google è Bagattelle, ma solo perché, essendo difficilmente reperibile, c’è più gente che lo cerca nelle pieghe spaziotemporali del web!

E spesso, chi vuole vedere Céline solo in Bagattelle, è chi lo vuole incasellare tra i suoi buoni o i suoi cattivi, a seconda della propria bandiera.


Cèline, al contrario di ciò che si pensa trasuda una grande umanità, un grandissimo cuore, soprattutto dalle sue interviste si capisce la differenza tra un uomo e un grande uomo... i timori umani, la tenerezza, ma anche lo schifo e la miseria che può provare per il corpo, per l'invecchiare, per la condizione umana ...ma non solo qui, in Morte a credito  dice esplicitamente

« Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si sono fatti vecchi, miserabili e torbidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo. »

quindi anche molta pietà sulla condizione umana unita al disgusto, condizione che solo persone dotate di una feroce sensibilità possono scorgere.

Infatti non a caso Céline mette sempre, tra l’umanità disperante che popola la società abbietta e calcolatrice di tante sue opere, una o due perle: le Molly o gli Alcide che danno tutto senza chiedere nulla, e appaiono così normali mentre lo fanno.

Non tutti quelli che, come me leggono Céline son antisemiti, così non sempre chi legge Proust è omosessuale... questa è una dichiarazione, di Nicolas Sarkozy, Oggi Céline si legge di più per conoscere la storia, o per goderne la scrittura, o per condividere su degli ideali che forse oggi lui stesso sghignazzerebbe, ma che friggono nei cervelli di parecchia gente... o...?

Povero Sarkò! Temo che Céline non avrebbe una gran stima di lui, comunque bella frase.
Se penso alla media dei miei amici céliniani, lo si legge per lo stile; anche perché “lo stile, è tutto!”
Il Viaggio, lo leggi per vedere poi la realtà con altri occhi, se lo leggi presto. Céline all’inizio scriveva infatti per i giovani; quando si diventa uomini ormai al 99% si è incurabili.


A tuo parere, un traduttore che ha saputo tenere testa lo scrivere, il sentire di Céline?

Pontiggia nel Bagattelle. Bravissimo. Poi Ferrero, Celati... la traduzione peggiore sembra sia quella di Caproni di Morte a credito.

Sulle traduzioni, almeno per i nostri scrittori più amati, trovo che sia utile leggere uno o due libri in lingua originale: le opere tradotte –sarà lapalissiano- sono scritte da un altro, traduzione riuscita o meno… anzi, magari il rischio è che più è riuscita più è un’altra opera! Fuori di paradosso, questo è un problema quando a tradurre è uno scrittore e non un traduttore professionista; lo scrittore talvolta piega la traduzione secondo la sua sensibilità. Certe volte è un bene; spesso è male.

Il tuo nuovo libro ci offre qualcosa che prima non c'era...almeno in Italia...
Ci sono anche interventi (italiani) inopportuni di qualcuno che sembra non aver proprio colto lo spirito di Céline...


Grandiosi, Piperno e Moresco… visto il mio interesse professionale per la storia, nel “Louis-Ferdinand Céline in foto” volevo usare lo stesso metodo d’approccio che uso nei libri di storia da me scritti o curati: ossia emico, e non etico. Chi tratta di storia non dovrebbe tentare di cavare dagli avvenimenti storici insegnamenti morali (diffidate da chi pensa di insegnare la “Storia” con la “S” maiuscola…), ma dovrebbe solo presentare i fatti; un minimo di interpretazione ci sarà sempre, è inevitabile, ma per quanto possibile si deve dare precedenza ai fatti e ai documenti, non partire dal presupposto che i documenti dovranno provare la mia tesi! Lo stesso ho fatto con Céline; presentando la sua vita, le sue opere, le sue interviste, le fotografie sue e dei personaggi del suo tempo… la mia opinione su Céline, artista e uomo, è solo una filigrana leggera che tiene unite queste parti, come il filo di un aquilone. L’unica parte del libro dove ho accantonato questa linea guida è stato commentando quei due articoli di Piperno e Moresco, così superficiale l’uno, e così artefatto l’altro. Non è questione di pensarla diversamente: è che parlavano di una persona, e di un’opera, conoscendo poco o punto dell’una e dell’altra.

Cosa pensi che direbbe oggi Céline, se potesse guardare il mondo?

Se Céline commentava l’uomo del 1930, già tutto diritti e nessun dovere, come “l’impraticabile buco di culo che si crede Giove allo specchio” e che i proletari vogliono non la riscossa sociale ma poter giocare ai “whiskymilionari” figurati il Grande Fratello del 2010… ti rispondo con le parole di Aymè, uno dei migliori amici di Céline:

Le sue più grandi collere, le ho viste scatenarsi contro tutto ciò che riteneva conducente all’abbruttirsi dell’uomo, all’abbandono di se stesso: l’alcol, gli stupefacenti, l’abbuffarsi di cibo scadente, la sessualità sfrenata, il lusso, la miseria, le false barriere, la religione (ai suoi occhi, sembrava che i peccati contro la Chiesa, avvallassero i peccati contro l’uomo), le ipocrisie sociali e mondane che, sotto una copertura d’onestà, favorivano lo scatenarsi delle cattive intenzioni. No, non era la nausea che invadeva Céline allo spettacolo di una società accanita a distruggersi in ciascuno dei suoi individui. Era un odio robusto, potente l’odio di un nemico contro il quale non si sentiva totalmente disarmato per nulla, lui che aveva avuto la volontà di disciplinarsi e che pensava di fare un’opera meritoria nello spingere il naso di chiunque nella sua propria lordura.

…e ti ringrazio per la chiacchierata, salutando gli amici céliniani in giro per il web!

Il libro è reperibile su Hoepli.it

o
Effepi Edizioni
tel. 010 6423334
tel. cell. 338 9195220
effepiedizioni@hotmail.com


blog di Andrea Lombardi

08 aprile 2010

Distributore di sogni



















 Ieri aspettavo il treno nella stazione di Parma, e lì dal bar vicino c'erano i distributori delle palline, quelle che contegno la sorpresa.
Un tempo non ce n'erano molti, ora se ne vedono d'ogni sorta, palline da 1 a 2 euro anche più. 
Era uno dei miei sogni preferiti riuscire a scassinare uno di quelle macchinette quand'ero più piccola, in realtà lo sogno anche di recente, ed era la cosa più bella quando nel sogno con diverse strategie, (dipendeva dal sogno) riuscivo a far uscire le palline e metterle come in un ladro proprio nel sacco per poterle aprire una ad una e guardarmi con calma la sorpresina che come un pò nell'uovo di pasqua di solito non è granché. (la strategia n! era colare la plastica con un accendino affinché si creasse un buco abbastanza grande da estratte le palline)
Nella realtà quelle volete che mia mamma mi concedeva una moneta, ero felicissima, di non sapere quale sarebbe stata la prossima pallina ad uscire, era sempre una piccola emozione che i rallegrava una qualche mezz'ora

-guardi dentro che regali propone il contenitore

-inserisci la moneta
-speri che ti esca quello più bello che hai adocchiato, o magari meglio.

pensavo proprio ieri, che la vita è un pò tutta come quel giro di palline con la sorpresa; siamo sempre lì' a metterci dentro degli euro di speranza, e in base a quello che sappiamo, conosciamo, vediamo nel mondo del possibile, speriam ci capiti giù una pallina fortunata, magari la più bella, prima poi. 
Così negli affetti, nel lavoro, nelle realizzazioni.
Inutile dire che nella maggior parte dei casi la cosa più bella è aspettare che la pallina scenda. Dopo lo stupore, quella baggianata ci può deludere, o entusiasmare un qualche minuto. Poi  Tutto tace. E di nuovo cerchiamo altre monete.

06 aprile 2010

sms 1

















Un messaggio del mio amico Antonio che mi pareva bellissimo.

Un sentimento non si prova, si indossa.

Antonio Facci Tosatti



05 aprile 2010

Giudizio universale

Uno dei miei testi preferiti di Camus, la Caduta - uno dei migliori monologhi mai esistiti...

"Creda ma me, le religioni sbagliano a partire dall'istante in cui  fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava a giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l'aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. Per loro non esistono circostanze attenuanti, anche la buona intenzione viene imputata come delitto".


Albert Camus "La caduta" ed Bompiani pp 62

01 aprile 2010

Il sogno di Maria


 Prima di incazzarmi definitivamente (per la gente che mi frega le cose dai blog, interviste, scritti e articoli vari senza citare mai la fonte, tipo link al blog e mio nome cognome, senza naturalmente avvisarmi -  motivo per cui ho messo la scritta sotto l'immagine del blog, e che ingenuamente dovrebbe fungere da avvertimento "ehì amico stai facendo una cazzata, ma non sarà la più grande della tua vita"), vi voglio augurare una splendida Pasqua il più possibile tranquilla e serena, e questa canzone di De Andrè, Il sogno di Maria che pulcia e rispulcia rimane tra le mie preferite in assoluto di tutta la sua discografia, pezzo che mi scuote e mi commuove,  preso da uno dei miei due album suoi preferiti "La buona Novella"

 


Il sogno di Maria


"Nel Grembo umido, scuro del tempio,
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso;
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese - Conosci l'estate
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.

Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade,
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.

Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

(... e l' angelo disse: "Non
temere, Maria, infatti hai
trovato grazia presso il
Signore e per opera Sua
concepirai un figlio...)

Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci.
Con le ali di prima pensai di scappare
ma il braccio era nudo e non seppe volare:
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un altra vita,
foglie le mani, spine le dita.

Voci di strada, rumori di gente,
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.
Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno ma sonno non era

- Lo chiameranno figlio di Dio -
Parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre."

E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.

E tu, piano, posati le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte. 




29 marzo 2010

Silenzio in Emilia: Intervista a Daniele Benati


Ne avevo parlato qualche post fa... è uscito per la Quod Libet, la ristampa del libro Silenzio in Emilia di Daniele Benati, un'intervista all'autore mi sembrava più che doverosa, soprattutto per rendere giustizia ad un modo che io condivido appieno nel guardare alla letteratura, alla scrittura e all'editoria, ma questo è giusto che lo dica un autore vero, con un libro vero, come è Silenzio in Emilia, dove la morte può fare ridere, più della vita sez'altro...
a voi...




Intervista a Daniele Benati su Silenzio in Emilia 

La prima domanda che mi viene su questo libro, cos’è la speranza più forte che una persona può avere in vita? E quale se ci fosse una consapevolezza postuma?


Non lo so, ma credo che la speranza di ognuno sia di realizzare i propri desideri. Fama, denaro, amore. Credo che si siano spente le megalomanie di trasformare il mondo in base a un credo ideologico. In quanto a una consapevolezza postuma, se ci potesse essere,  penso che ognuno di noi vedrebbe chiaramente come tante cose a cui ha dato valore, di valore ne avessero ben poco.


-Silenzio in Emilia è un libro di racconti di personaggi  che per un motivo o per l’altro hanno a che fare con la morte, che spesso è la propria, altre volte è quella di chi li circonda, altre è la paranoia della morte. Nonostante l’argomento, si ride molto in questo libro. Perché è proibito oggi ridere della morte, anzi non solo ridere della morte, ma parlare della morte a meno ché non sia cronaca che allora la stessa morte viene trasformata in altro?

Beh, la morte è un tema che non attrae molto gli editori, a meno che non sia legato a qualche fatto di storia attuale, come una guerra o qualcosa di simile, che allora sono pronti a cavalcarlo, perché ne parlano già i media. Ma un libro che s'intitolasse La morte di Ivan Ilic oggi un editore ci andrebbe piano a pubblicarlo. Se l'autore fosse anche un nuovo Tolstoi gli proporrebbero di cambiar titolo. Come hanno fatto col primo libro di Ugo Cornia, che lui voleva intitolare Tanto fra un po' saremo tutti morti. Quanto al mio, Gianni Celati, all'epoca della prima edizione, mi aveva suggerito di intitolarlo Storia naturale dei morti, che poi ho scoperto essere un titolo che Hemingway aveva dato a un suo racconto. Io non l'avevo messo perché mi sembrava un po' troppo statuario, lo vedevo scolpito nel marmo bianco di una tomba e non mi sembrava che corrispondesse allo spirito del libro, che invece è pieno di vita. La morte, infatti, nel mio libro, è solo un artificio tecnico che serve per dare risalto alle cose, anche più stupide, che facciamo nella vita. Non ha niente di funereo, e non è tragica. Tragica, semmai, è la vita. 

-Una cosa che mi ha molto colpito leggendo il tuo libro, è questa sensazione di tremenda malinconia, nonostante il fatto della morte sia sempre presente,  più che la morte come sensazione spicca la nostalgia, la malinconia. In alcuni racconti, i personaggi stessi che narrano sono già morti, e vanno a vedere cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale, quando non ritrovano più le cose al loro posto vengono spiazzati, cercano un po’ di conforto spesso frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualcosa che li consoli, magari una sigaretta, ma nel primo racconto ad esempio il massimo che si trova nel taschino è un bottone di ricambio.

E perché non potrebbe essere proprio così l'aldilà, se ci fosse? Un mondo nel quale si ha la costante sensazione di aver perso qualcosa e ci si trova a mal partito. E' un po' il contrario di quando siamo nati, dato che in quel momento il qualcosa lo abbiamo trovato, seppure inconsapevolmente. Nei miei racconti è come se i personaggi si ritrovassero daccapo con la loro vita, ma incapaci di mandarla avanti. Hanno la stessa curiosità e la stessa preoccupazione che avrebbe un neonato se capisse che è nato. In realtà sono morti, ma non hanno la consapevolezza di esserlo esattamente come a un neonato manca quella di essere nato.
 
  
Qui i personaggi, son per lo più gente “semplice” normale, di paese, pure se con le loro ambizioni, i loro crucci, le loro invidie, sentimenti umani del resto, un po’ sembra di conoscerli da tanto sono reali, hai preso spunto da persone che hai conosciuto nella tua vita, o mi sorge il dubbio potresti essere anche tu? 
 
No, a me innanzitutto vengono in mente dei nomi, o delle persone di cui posso aver sentito parlare e che per un motivo o per l'altro mi sono rimaste in mente. E questi nomi e queste persone hanno la capacità di trasformarsi immediatamente in personaggi. C'è qualcosa di adolescenziale, in questo. Di quando, da ragazzi, si cercava di penetrare nel mondo degli adulti attraverso la frequentazione di bar o di compagni un po' più grandi che a loro volta ne conoscevano di più grandi ancora che avevano già una notorietà locale perché magari stavano per essere venduti a un grande club di calcio o perché erano stati a Amsterdam in autostop. E allora si sentiva parlare del tale e del tal altro come fossero effettivamente dei personaggi. Gran parte dei nomi dei personaggi di Silenzio in Emilia, come pure quello di Pignagnoli, che però è antecedente al libro, dato che lo avevo usato per un racconto intitolato Sanremo, sono tutti nomi che sentivo da ragazzo e quasi tutti da un mio amico che faceva l'elettrauto e mi parlava dei suoi clienti. Ho sempre pensato che l'età dell'adolescenza è un grande serbatoio di emozioni e di idee per chi scrive, perché è lì che ci si affaccia al mondo e si fanno le “grandi scoperte”. Per me, ad esempio, la letteratura, l'arte, sono state scoperte che ho fatto a quell'età, ma al di fuori della scuola, ed erano scoperte proprio per questo. Erano il mondo, quello che nel mondo ci si poteva aspettare di trovare di bello. Sembra un po' tutto leggendario, a quell'età.  Ma per tornare alla faccenda dei nomi, e qui si potrebbe parlare a lungo, e vedere quanta poca importanza abbiano in un certo tipo di narrativa, come quella di Moravia & Co., piena di nomi come Desiderio, Serafino, Agostino ecc., che non danno la minima idea di un personaggio, bisogna rendersi conto che dietro a un nome, come dice Celati, c'è una tonalità, ed è da questa tonalità che scaturisce l'individualità di un personaggio, da cui a sua volta può scaturire non solo una storia ma anche il modo di narrarla. Certo, se come è capitato in certa narrativa sperimentale, un personaggio si chiama C. e l'altro A., questo discorso non vale più.

-C’è un personaggio al quale nel tempo ti sei affezionato? E qualcuno nel quel ti senti un po’ te?
 
Sì, a tutti i personaggi del libro, ma in particolare al giocatore di bocce, dato che sono stato almeno per quattro anni un appassionato di questo gioco. Siccome però ero una schiappa, ho fatto poca strada. Ma ho continuato a guardare con ammirazione quelli che lo praticavano, che secondo me sono grandi artisti, in genere vecchi operai o artigiani,  che sembrano macchine perfette e non sbagliano un colpo con la boccia in mano. Anche quella è arte, un insieme di concentrazione, abilità, astuzia e temperamento. L'altro personaggio a cui mi sento molto vicino, è l'ultimo, quello che in teoria avrebbe scritto il libro durante una visione da lui avuta davanti a un campo di calcio in cui si disputa una partita fra la squadra sgangherata di tutti i personaggi (morti) dei vari racconti e una squadra super in forma chiamata “Mercatone”. Al campo il personaggio, denominato “il figlio di Socetti”, innamorato non corrisposto della sua compagna di classe Portinari,  è stato condotto dal suo cane che era morto un anno prima. E poiché per il giorno dopo deve scrivere un tema su un evento straordinario a cui ha assistito, decide di scrivere ciò che vede in quella stramba partita. Ma ciò che vede è una visione, non è qualcosa di reale, perché di fatto in quel campo si sta solo allenando una squadra di dilettanti. E' stata la sua testa abituata ad andar fuori tema e per questo a penalizzarlo nel suo rendimento in italiano, a fargli prendere ancora una volta la strada sbagliata. Fortuna vuole che proprio la sua compagna Portinari lo vada a cercare ai bordi di quel campo e lo riaccompagni a casa, mentre lui, sentendosi forte come Dante, le legge il suo scritto alla luce dei lampioni. Ecco, io, qui, messo fra mille virgolette, volevo fare un richiamo a Dante nel momento in cui viene condotto in Paradiso da Beatrice, dato che Portinari era il cognome di Beatrice, ma di tutti quelli che hanno scritto una recensione al libro quando è uscito nel 97, solo uno ci ha fatto caso. E dire che per me era tutto lì.
 
Sapresti dire a chi non l’ha letto ancora, perché nonostante sia un libro di racconti, tu lo senti meglio rappresentato come romanzo, o meglio che si scopra man mano nella lettura?
 
No. Questo libro non è un romanzo, ma nemmeno una raccolta di racconti. Per il semplice fatto che esiste una cornice (il racconto finale), nella quale ricompaiono tutti i personaggi del libro e altri personaggi vengono ripresi qui e là nei vari racconti. Si tratta di racconti, questo è certo, ma non solo di una raccolta di racconti. 

A cosa o a chi devi l’idea di questo libro, da cosa è scaturita?
 
In parte al Terzo poliziotto di Flann O'Brien, un romanzo nel quale il narratore scopre di essere morto vent'anni dopo la sua morte; in parte alla traduzione che in quell'epoca stavo facendo dei Dubliners di Joyce, libro che contiene un racconto, quello finale, intitolato I morti, che spalanca grandi fantasie su questo tema; e in parte a vicende mie personali.   

Questa edizione di Silenzio in Emilia (Quodlibet 2009) è una ristampa , la prima edizione era Feltrinelli ed. ’97 è cambiato in questi anni il modo di percepire questo tuo lavoro, o resti fedele a quelle sensazioni di allora?

Be', non ho visto molto interesse per questa ristampa, dato che non è uscita neanche una riga sui giornali. All'epoca della prima edizione, qualcosa si era mosso, il libro aveva avuto buone recensioni, aveva vinto un premio ed era arrivato finalista a un altro, su segnalazione della scrittrice Marta Morazzoni, che, a parte questo, stimo moltissimo. Ma credo che da allora siano cambiate parecchio le cose nell'editoria. Molte erano già cambiate dalla fine degli anni settanta ai novanta, ma dai novanta in poi è stato un macello. Adesso fai presto a finire al macero se non vendi. E gli editori ti stimano solo se vendi. Puoi aver scritto una puttanata ma se vende, l'editore ti guarda bene. Ed è logico, perché questa è la logica del mercato.  Per quanto riguarda il mio libro, alcune cose non le scriverei più. C'è un atteggiamento di fondo che non sento più d'avere. E poi un sentimento per il valore del passato che oggi preferirei tenere per me, senza metterlo a repentaglio in un racconto. 

Cos’è che ancora ti piace dello scrivere, e cosa invece non ti piace più?

Scrivere è bello quando senti di avere qualcosa per le mani. Purtroppo molte volte non è così, e allora più che scrivere si cincischia, si va alla ricerca di cose da raccontare, e in fondo lo scrivere può anche avere questo senso, di scrivere per sapere cosa si è scritto. Ma è una pratica che non può trasformarsi in metodo e allora sarebbe molto meglio aver le idee chiare fin da subito, con un soggetto da sviluppare secondo l'andamento di una trama da suddividere in varie fasi, come fanno gli scrittori americani o quelli nostrani che imitano gli americani. Il problema è che in Italia questa faccenda dello scrivere è avvolta da una tale, direi quasi comica, aura di narcisismo, che vien da ridere se poi si guardano i risultati. In America, straordinari scrittori di genere come Dashell Hammett, Jim Thompson e Philip Dick, producevano romanzi e racconti a getto continuo senza aspettarsi nulla, tranne i pochi soldi per i quali scrivevano. Il loro era un puro lavoro manuale non diverso da qualunque altro che il destino li avesse portati a fare. E proprio qui sta la loro grandezza. L'America è una terra rude che dà poco spazio alle sofisticazioni intellettuali e questi erano scrittori che non pensavano alla letteratura perché lo scrivere per loro era solo un modo di stare al mondo. Mentre qui da noi ecco che tutti, non appena pubblicano un libro, vanno a vedere in che posto sono stati messi nella letteratura e cominciano a sgomitare per farsi largo secondo una scaletta di affermazione che, partendo dal basso, procede in un modo che fa più o meno così. Prima bisogna scrivere e poi pubblicare, e quando hai pubblicato devi rispondere alla domanda: Con chi? Tu dici con un grande editore, e così ti arriva subito la seconda domanda: 
Hai avuto recensioni? E se sì, dove? Perché c'è una bella differenza fra essere recensiti da un quotidiano nazionale di grande importanza ed essere recensiti nella pagina locale della gazzetta della tua città. E se ti hanno recensito sul quotidiano nazionale, da chi sei stato recensito? Perché c'è una bella differenza anche fra i critici. Ma diciamo che sei staro recensito da uno importante, così che possano scattare le domande successive: E di premi, nei hai vinti? Ti hanno invitato a leggere da qualche parte? Sei stato a Mantova, Roma, Parma, Modena? A Modena fanno il Festival di Filosofia, cosa c'entro io? Eh be', sei uno scrittore, invitano anche gli scrittori a Modena, gli scrittori, i pittori, gli idraulici e gli elettricisti. E poniamo che siate stati invitati a tutti i festival, e dunque abbiate risposto di sì, questo non vi mette al riparo da un'ulteriore domanda. Ma tu, dice, un agente ce l'hai? Certo che ce l'ho. Questa dell'agente è un'altra di quelle trovate americane che qui da noi buttano male, anche se il poter dire da parte vostra, all'inizio di un discorso: “Il mio agente s'è fatto in quattro...” o cose del genere, potrebbe farvi balzare dritti nell'Olimpo di chi conta, soprattutto per quell'uso del possessivo “mio”, uguale identico a quello che sta nel gradino superiore, quando lo scrittore, consapevole di esserci arrivato, sente di poter dire: “Il mio editore!” Quando uno scrittore dice “Il mio editore”, significa che ha toccato l'apice. Gli scrittori che dicono “Il mio editore” guardano il mondo dall'alto al basso. Ma solo per poco. Perché è in agguato un'altra domanda: Ti hanno tradotto all'estero? Certo che mi hanno tradotto, mi hanno tradotto di qua e di là. E poi vi mettete a parlare del vostro editore francese, di quello inglese e di quello americano. Nessuno, badate bene, parlerà mai di un editore paraguayano, ma tutti di quello francese, inglese e americano. E hai avuto premi anche all'estero? Certo che li ho avuti. Il nostro interlocutore a questo punto è spiazzato, non sa più che pesci pigliare, è smorto e sembra perfino dimagrito. Sta lì imbaciucchito dalle sue stesse domande fino a quando non gliene viene in mente un'altra: Il Premio Nobel però l'hai mica vinto? E voi: Quello è un premio di rappresentanza dove conta l'influenza delle ambasciate. Ti risulta che l'abbia vinto Kafka, o Proust, o Musil, o Celine, o Joseph Roth? Dopodiché si tace. Magari intorno s'è fatta primavera e ognuno sente che sta per capitargli qualcosa di bello. E' questo che non mi piace dello scrivere. Che tu fai delle cose e poi queste cose vengono giudicate in base al chiacchiericcio condominiale. Oggi poi che esiste internet, si fa presto a valutare dal buco della serratura la tua affermazione. La si vede dal numero di siti in cui ricorre il tuo nome. E tutti lo vanno a cercare, bada bene, è come se oggi tutti si facessero delle gran seghe non più guardando i siti porno ma quelli che riguardano il tuo nome. Io non lo so, ma secondo me c'è qualcosa di malato nell'aria, come forse c'era prima che crollasse l'Impero Romano che appunto deve essere crollato perché c'era qualcosa di malato nell'aria. E' come se tutti fossero dei debosciati. Ma forse è sempre stato così. E alla fine, per chi scrive, non rimane che appoggiarsi a quella famosa frase di Beckett che dice: Non c'è più niente di cui scrivere, niente da cui scrivere, niente per cui scrivere, tranne l'obbligo di farlo.
 
 Sempre la morte non sembra una dimensione poi così tragica, ma davvero onirica, una dimensione di amnesia  di farneticazioni, di fantasticazioni, ma anche di naturalità…
 
Noi ci immaginiamo la morte con la nostra coscienza di vivi, che ci farebbe dire: Sono morto.  Ma questo è impossibile. La morte è indicibile. La possiamo immaginare, ma rimane al di là della comprensione. Ed è questo che la rende oggetto di fantasie narrative. Il non sapere contrapposto al sapere come punto di vista adottato da chi scrive. Chi scrive decidendo di non sapere brancola nel buio mentre chi scrive sapendo tutto va giù spiano con le sue cinquecento pagine, e buon per lui, bravo, arrivederci.
 
Chi è in grado di scrivere? Ieri e oggi, non voglio nomi, ma chi è capace di scrivere cose degne.

Oggi scrivono tutti. E' difficile dire chi passerà alla storia. Vent'anni fa volevano tutti fare i fotografi; trent'anni fa i pittori; quarant'anni fa i cantanti beat o i rivoluzionari. Quello che è certo è che, oggi come allora, ma oggi in maniera più evidente, tutti vogliono essere qualcuno, al di là del loro mestiere. C'è una tale smania di protagonismo nella nostra epoca, che c'è da rimanere allibiti.  Se non scrivi, o dipingi, o fai fotografie, o suoni musica, puoi sempre cercare di agitarti per vedere il tuo nome stampato da qualche parte attraverso un assessorato,  o come organizzatore di reading, presentazioni, conferenze, in modo da avere un serata in cui puoi vivere di luce riflessa, magari a cena, con il grande nome che hai invitato, e a cui, dopo aver pagato il conto, infili nella tasca il libretto delle tue poesie. E' indubbio che ci sia un grande produzione letteraria, oggi in Italia, coperta dalle case editrici. Sai quante case editrici sono nate dal 1998 al 2003? Dieci? Venti? Trenta? Quaranta? Cento? No, 553! Un numero strabiliante, secondo me.  Vuol dire che la cosa rende, ma anche che finisce lì, nella rendita, non nella qualità.

Un tuo desiderio riguardo la scrittura, se ci fosse.

 A me piacerebbe che le cose dell'editoria tornassero a com'erano quarant'anni fa. Quando la casa editrice Einaudi aveva le sue belle collane di scrittori sperimentali con dentro Arno Schmidt, Le-Clezio, Claude Simon, Peter Weiss, Samuel Beckett, e addirittura Heissenbuettel, o quella collana in cui bisognava tagliare le pagine, nella quale erano stati pubblicati La banda dei sospiri di Celati, L'arrivo della lozione di Vassalli, e lo straordinario libro di Ghizzardi, Mi richordo anchora. Mi piacerebbe che ci fosse un editore coraggioso come quello francese delle Editions de Minuit, o quello americano della Grove Press. Che pubblicavano Robbe-Grillet, o Samuel Beckett quando Samuel Beckett era un esule irlandese a Parigi, rifiutato da quarantadue case editrici inglesi, che mandava in giro sua moglie per non esser lui ad incassare l'ennesimo rifiuto. Questi editori avevano il fiuto e non correvano dietro ai soldi. E se oggi hanno quattro cinque sei dieci premi Nobel fra i loro autori è perché amavano la letteratura e la capivano. E così mi piacerebbe che in giro ci fosse uno di loro. Per cinque minuti, non di più.

                        Gisela Scerman 2010 (c)


26 marzo 2010

Intervsta a Bernhard (1)

Mi piaceva l'idea di poter leggere tutte le interviste di Thomas Bernhard che ci sono in rete, purtroppo la mia ignoranza in inglese rende poca giustizia alle succulente risposte che son state gentilmente tradotte in italiano da Daniele Benati. Posto qui questa parziale intervista fatta a Bernhard dal giornalista fatta nel 1986 da Werner Wögerbauer; traduzione di Daniele Benati.


Thomas Bernhard: Spero dunque che non le darà fastidio se continuo a leggere il giornale.

Werner Wögerbauer: No, affatto..

Dovrà farmi una domanda se vuole avere una risposta.

A lei interessa il destino dei suoi libri?

No, non molto.

E le traduzioni dei suoi libri, ad esempio.

Ho poco interesse per il mio, di destino, e certamente non ne ho per quello dei miei libri. In quanto alle traduzioni, cosa intende?

Sapete cosa accade ai suoi libri in altri paesi.

Non mi interessa per niente, perché una traduzione non è più lo stesso libro. Non ha assolutamente niente a che fare con l'originale. E' un libro della persona che l'ha tradotto. Io scrivo nella lingua tedesca. Ti spediscono una copia questi libri e i casi sono due: o ti piacciono o non ti piacciono. Se hanno brutte copertine ti danno solo fastidio. Sfogli le pagine ed è finita lì. E' una cosa che non ha niente in comune col tuo lavoro, a parte i titoli bizzarri. Giusto? Questo perché la traduzione è impossibile. Una composizione musicale è suonata allo stesso modo in tutto il mondo, a partire dalle note scritte, ma un libro dovrebbe sempre essere suonato in tedesco, almeno nel mio caso. Con la mia orchestra!

Ma se lei proibisce che in futuro si facciano rappresentazioni della sua opera teatrale “Il riformatore del mondo”, vuol dire che a lei sta a cuore il destino delle sue opere.

No, perché “Il riformatore del mondo” è stato scritto per un attore in particolare, e questo perché sapevo che era l'unico attore che poteva rappresentarlo, all'epoca, dato che non c'erano altri vecchi attori come lui, quindi mi è venuto fuori in maniera naturale. Non c'è nessun senso a farlo rappresentare da uno stronzo di Hannover, non ne verrebbe fuori nulla di buono. Se ci sono solo problemi in vista, meglio non farlo.


Come si spiega il fatto che lei è presa molto più sul serio all'estero che non in Austria, che di fatto all'estero i suoi libri sono letti mentre in Austria lei è principalmente considerata come una persona che crea degli scandali?


Questo perché fuori dall'Austria, nei paesi di cultura romanza e slava, c'è un maggiore interesse per la letteratura in generale. La letteratura gode di uno stato che qui è totalmente assente. Qui da noi la letteratura non ha nessun valore. Ce l'ha la musica, ce l'ha il teatro, ma qualunque altra cosa ne è completamente priva. E' sempre stato così.

Appena ti mostri gentile con qualcuno per strada, la gente non ti prende sul serio, anzi è sufficiente a farti considerare un pagliaccio. Quello che fa una persona del genere non può avere nessun valore. E' come nella vita famigliare. Se cresci in una famiglia, perfettamente normale, con i divertimenti che si hanno di solito nell'infanzia, poi per il resto della tua vita la gente ti dirà che sei un ciarlatano, che non va bene, che il ragazzo che non fa nient'altro che scherzare dovrebbe invece lamentarsi di come cucina male sua nonna. E questo ti segue fin nella tomba. E la stessa cosa vale per lo stato e la nazione. Se ti mostri gentile con gli altri, sei finito. La gente ti tratta come un comico da cabaret, tutto qua. E in Austria, tutte le cose serie vengono trasformate in cabaret. Qualunque traccia di discorso serio finisce nel ridicolo. Gli austriaci riescono a tollerare la serietà solo come barzelletta. In altri paesi esiste ancora il senso della serietà. Anch'io sono una persona seria, ma non lo sono sempre, chiunque diventerebbe matto ad esserlo sempre e sarebbe stupido se lo fosse. Le cose stanno così.