Penso che esistano e siano esistito grandi uomini che non hanno mai avuto la pretesa di essere conosciuti, o la possibilità di essere conosciuti, ma hanno regalato umanamente tanto davvero; a quelli che gli stavano vicino, a chi lo conosceva... credo sia giusto quando si ha la possibilità far arrivare qualcosa parlando di loro pensando che ne sarebbero felici, quel qualcosa che han dato come.
Io vengo da un paesino del veneto, e lì accanto ci abitava un anziano che appiccava sempre le più strampalate pubblicità, i manifesti più bizzarri accostati alla cronaca politica.
Da qualche mese è morto ed è una gran mancanza tra quelle case. in maniera del tutto inaspettata e rapida, ma forse senza troppo accorgersene Cirillo in ospedale pronunciava queste parole "varda come devo pasare i ultimi ani dela me vita *"guarda come devo passare gli ultimi anni della mia vita...."notare che è morto la settimana dopo. Un ironia della sorte al contrario...
Il mio ex preferito (alfonsino) ne è stato vicino di casa per anni.
Quindi lascio questo scritto da chi l'ha vissuto più vicino di quanto io stessa non abbia potuto...e credo sia un bel regalo, per chi lo sa leggeere,anche se il miglior regalo sarebbe stato conoscerlo.
Cirillo Serafini
Opera da anni a Casotto, una frazione di un dimenticato comune che risponde al nome di Pedemonte, anche se dimenticato forse non è un termine appropriato visto che denota una precedente presa di coscienza della sua esistenza... Se c’è una persona che ha il merito di appartenere alla categoria di anarchici dell’arte della quale ho prima scritto, questa è lui. Da sempre utilizza spazi non convenzionali per manifestare con saggia indifferenza il proprio talento, spacciato modestamente come attività riempitiva dei buchi della giornata nei quali non sa cosa fare, ed è proprio in questa maniera che riesce ad attaccare e ferire l’oramai colonizzata e insensibile carne dell’arte contemporanea.
Attraverso l’affissione di estratti di giornali che vanno dalla politica alla pubblicità, dalla religione al costume, esibisce senza pietà la crisi dei valori di una società sempre più apatica, e il suo casuale accostamento di icone del mondo contemporaneo come Valeria Marini e il Papa non può che portare il curioso osservatore ad interrogarsi sul processo in cui i media cercano di svalutare l’indispensabile e valorizzare l’inutile. L’aspetto fondamentale dell’arte di Serafini sta proprio nell’inconsapevolezza di ciò che fa, come se le sue opere fossero prodotto del suo istinto piuttosto che di una elaborata teoria estetica. D’altronde, visto che “tutto ciò che si trasferisce dall’intelligenza dell’Universo allo Spirito umano ha un nome: si chiama intuito” (K. Stockhausen), possiamo affermare che il suo modo di combattere la crisi dei valori non è altro, insieme agli attacchi “terrorist-artistici” dei dadaisti, la psicosomatizzazione del senso di vuotezza che pervade la civiltà contemporanea. Stupide pubblicità di prodotti di largo consumo che parzialmente coprono foto di politici ritratti in bizzarri atteggiamenti, urlano il più agghiacciante accostamento semiotico degli ultimi vent’anni: la politica come forma pubblicitaria, come modo burocratizzato per commercializzare il proprio pensiero sottolineando implicitamente che l’uomo stesso è oramai un prodotto, un vuoto a rendere oppure una merce biodegradabile.
La pentola Agostini, una caricatura di Forattini, le sinuose forme di Moana accanto a pubblicità di lotterie fotografano spietatamente una realtà che ha corroso negativamente le diversità, creando un amalgama di valori in cui denominatore comune è la vuotezza, l’incapacità di ricordare che essi erano frammenti lontani e ben distinti di uno stesso mondo. E come nell’installazione permanente (l’unica della sua carriera) sotto le scale affianco al garage in cui un covo di ridicoli politici che si riparano dalla pioggia metaforica del dissenso scandita dalla più famosa delle frasi qualunquiste riesce a venire prima de-costruita tramite l’anacronismo storico nella quale risiede, poi re-integrata sotto lo sguardo fuori campo di una giovane donna con un cappello d’asino in testa, così egli distrugge dadaisticamente i falsi miti del contemporaneo ed eleva ad icona, grazie all’incosapevole uso della pop-art, l’oggetto comune: lo scopo di evidenziare la piattezza del mondo e di conseguenza la morte dell’Uomo è ormai raggiunto, e all’artista non resta che ricominciare la sua inutile ma fondamentale battaglia per il ripristino dei valori. Ecco spiegato perché la quasi totalità delle installazioni non può essere permanente: anche il tempo e gli agenti atmosferici, spietati attacchi della volontà Divina, esprimono il loro disgusto tramite l’atto di sbiadire le immagini appese, le quali verranno, su scelta dell’artista, sostituite o meglio, visto che comunque trattano di merci/umane e di uomini/merci, reciclate o peggio smaltite.
Un altro campo nel quale Serafini si esprime è quello della scultura, in cui l’artista cerca di coniugare materiale biologico con materiale inorganico ottenendo opere di raro impatto emotivo e destabilizzante. Alberi secchi e morti costretti da coperture di vernici all’eterna verticalità, fissati definitamente in tronchi di cono di cemento che contrastano orribilmente con la loro naturale forma contorta, rami raggelati in posizioni impossibili che sembrano urlare incessantemente il loro dolore per la paralisi subita, per la condanna all’eterna esistenza e la privazione del diritto del Sacro Ordine della Putredine che regola il ciclo dell’esistenza, rammentano all’uomo il ruolo che si è scelto sfidando l’Universo: quello di disporre del mondo intero beffandosi di quello che dovrebbe essere, ma non è più, il regolatore del pianeta: l’equilibrio naturale. Serafini contrappone esteticamente la fragilità del biologico al rigore dell’inorganico in modo tale da suggerire ambiguamente una possibile rivalsa della Natura sull’Uomo: forse, in realtà, non è il cemento ad imprigionare l’albero ma è l’albero ad emergere dal cemento, capovolgendo così la prima impressione che un osservatore avrebbe, in una logica umano/involutiva che porterebbe ad un ritorno “poison-ivoniano” del dominio naturale.
Stessa interpretazione va associata alla sua ultima opera creata facendo “nascere” un albero natalizio da un minuscolo cubo colorato: ciò che nell’albero irrigidito dalla vernice veniva rappresentato dal tronco di cono è ora sostituito con un’altra forma geometrica, e il goffo albero che ne cresce, con le sue sporche e caricaturali palline di addobbo portano ancora una volta l’osservatore a riflettere su come l’Uomo si beffa della Natura utilizzando un albero, simbolo intrinseco della vita essendo prima di tutto lui essere vivo, assassinato tramite decapitazione come icona della vita, quella del Salvatore. Ecco quindi il contrasto e insieme la simbiosi tra la vita e la morte divenire tutt’uno nell’immagine più caratteristica e ricorrente del Natale. Il minimalismo dei materiali usati, il lungo trattamento dei frammenti biologici non-più-vivi e il loro blasfemo matrimonio con la materia inorganica mai-stata-viva pongono le sculture di Serafini tra il costruttivismo sovietico e l’arte povera, con l’ombra sempre presente della pop-art: è chiaro che la forma di tronco di cono è in realtà un secchio e il tavolo da giardino è ottenuto con un la base di un comune lavandino cementata in un copertone. E, oltre tali avanguardie, la logica presenza della madre dell’arte anarchica, ovvero il dadaismo: il tavolino può divenire una lampada togliendo la granitica semisfera/seno centrale e l’albero è un vero e proprio “albero da passeggio” (ricordate i “gelati da passeggio” di Claes Oldenburg?) dotato di maniglia; anche il piccolo pino fissato nel cubo può essere convenzionalmente “usato” come albero di Natale. Concludendo, finché queste cellule impazzite del contemporaneo continueranno ad esporre e ad esporsi per poter liberamente concretizzare le loro visioni, possiamo sperare non tanto che l’Uomo, inteso come individuo unico e definitivo sopravviva, ma che perlomeno il processo di autodistruzione tramite l’omologazione venga rallentato. Cirillo Serafini, grazie.
2 commenti:
Mi piace quando racconti qualcosa del tuo paese di origine. So quanto in generale tu sia abbastanza critica verso quel periodo. Ma le eccezioni ci sono, e il fatto che abbastanza spesso ne parli ritengo dimostri che in ogni parte del mondo, soggettivamente parlando, possiamo trovare dei fatti positivi.
Paolo
barbar
Beh sì certo, basta saperli vedere...
bisogna saper ricordare quel che merita, il resto lasciarlo scorrere, per quanto ci sia possibile
Posta un commento