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Le strade, le macchine incerte o ferme, il freddo, il caldo, le donne, labbra rosse sotto luci underground. Ho sempre sperato che almeno queste trovino clienti con auto riscaldate, ne ho conosciute di puttane. Anni fa. Li per lì mi piacevano tanto. Queste bambole di carne accondiscendenti. Per forza. Un Dio femmina sono. Ognuna. Passavo per strada, tiravo giù il finestrino, parlavo loro, ad una ad una a meno che non ci fossero quelle in gruppo, sulle quali limitavo i commenti.
Quasi tutte straniere. Uscite da una favola sbagliata.
Qualcuna prende anche confidenza e mi chiede di accenderle la sigaretta: le dico che non fumo, ma trovo lo stesso un accendino, dal finestrino sporgo il braccio e faccio fiamma, accendo, si fa chiacchiere un po’, sembra felice, non mi dice nulla a parte che no, con una donna non può. Le chiedo perché, lei mi dice perché no. Le dico che non è una risposta, ma lei sorride e non si spiega di più. Vado via. Lascio il fumo e lei dietro la macchina.
Alcune non hanno l’appartamento, chiedono se possono fare in macchina, e quelle hanno costi contenuti, sono abituate alla carne che si fonde con la notte e lo scomodo. Altre no, sembrano quasi lo vogliano ed io almeno due volte son finita col crederci.
Una morettina carina dice che vuol salire, io le sorrido come per chiederle se ne è convinta, lei giovane mi sorride vivace e sì, è convinta, non le è mai capitato con una donna. Ha i capelli lustri e corti, tutti dritti come spaghetti, occhi scuri e lucidi, vestita semplice, con una camicetta bianca e pantaloncini corti neri.
Saliamo dietro tutte e due, si fa toccare e ride sempre, si sbottona la camicia dalla quale fa sporgere i seni, tirando sotto questi il reggiseno.
Ha i capezzoli turgidi e scuretti, un bel seno abbondante nonostante sia così esile. È simpatica, giochiamo un po’. Stiamo lì mezz’oretta, vuole pochi soldi perché dice che non sono impegnativa come un uomo. Dico che non mi conosce bene. Lei dice per quel che riguarda il sesso. Le ripeto che non mi conosce bene e poi tra donne gli incastri sono più difficili se ci si vuole impegnare. L’ho solo guardata un po’ e accarezzata, poi battute anche sulle sue colleghe, guarda l’ora, è tardi, fa per scendere dalla macchina, dallo sportello sbucano ancora quei suoi occhi luccicanti, dice che deve tornare al lavoro. Quello serio, mi esclama in modo un attimo più cupo. Le mando un bacio e la saluto con la manina a cinque. Come i bambini. Lei ricambia.
Era Bologna centro. Notte.
Una bionda sempre vestita d’argento, bella da non credere. L’avevo soprannominata «La Rockets», proprio come quel gruppo di cantanti anni settanta. Alcuni amici che sapevano di questo fatto, per prenderla in giro a volte le passavano a fianco e tutti assieme a cantarle dal finestrino «On the road again». Mi incazzo un po’, ma sono in minoranza. Loro ridevano, ed io non me la potevo permettere, qualunque cifra avesse chiesto. Nemmeno gratis.
Ho deciso di andare in debito.
Era già capitato che l’avessi adocchiata e tra l’indecisione e l’imbarazzo facessi un altro giretto per chiarirmi le idee. Quando torno me l’hanno già rubata. Barbie nel cuore, non riesco a pensarla tra le mani di qualcun altro, e invece sì e mica uno chissà quanti, una così ne fa venire voglia anche ai più puri. Una sera però riesco a trovarla libera, mi fermo, tiro giù il finestrino la guardo e sorrido, le chiedo quanto.
Lei dice centocinquanta. Mi è sembrato una miseria. Anche se son povera.
Non fa domande, parla poco mi chiede se da sola. Le dico di sì. Mi piacerebbe farle delle foto anche svestita d’argento com’era, lei assolutamente si nega. Tutto quel che voglio, ma no foto. Una Cecoslovacca, più vacca che ceca, non credo per scelta. Bionda capelli lunghi, occhi chiari, un corpo di luna divino.
Mi porta un po’ fuori, dove vive, in un palazzo. Una cucina piccola, la camera grande, ci lavora del resto, c’è un letto matrimoniale con lenzuola leopardate, cuscini, sui comodini pupette con parrucche di vari colori e generi.
Le chiedo come si chiama. Dice Mirella, ma non credo sia vero. Cosa voglio fare. Le ripropongo le foto. Insiste sul no. Allora che la voglio vedere più nuda di quanto non lo sia già, si leva la giacchina argento e manto di pelliccia bianca, sotto un reggiseno nero, si sbottona la gonna e le cade morbida sui piedi alti sui tacchi a spillo neri. Ha dei vibratori vicino il letto, uno in particolare mi piace, è trasparente, le dico che è bello, mi chiede se lo si usa. Le dico dopo.
Intanto voglio guardarla. Figura di Venere che stabilisce il prezzo del desiderio. Nel frattempo si leva il reggiseno, si cala le mutandine nere, ce l’ha rasata a mohicana.
Mi avvicino e chiedo se posso toccarla, lei acconsente. Vorrei leccarla. Lei anche mi tocca, senza che le chieda nulla. Ho un lungo vestito rosso, me lo faccio togliere mettendomi di spalle a lei. Il desiderio che mi stringa, mi abbracci da dietro mentre cala il vestito, non resisto, mi giro io. I nostri due corpi si toccano. Si toccano solo, con le vesti ai piedi. La desidero. So che non mi apparterrà mai, ma in quel momento, in quel momento e basta io ero sua. So che non era vero il contrario, nonostante fossi io a pagare. Si sdraia lunga, i capelli biondi raggi di sole sul cuscino, prende il vibratore trasparente, io le sono a fianco, se lo mette in bocca chiudendo gli occhi, se lo toglie e me lo appoggia in mezzo ai seni, da lì me lo fa scendere lentamente verso l’inguine. Mi chiede se voglio fare io il resto.
Le dico di no, che faccia lei, che mi piace come fa. Con molto garbo me la schiude con le dita e unghia lunghe, me lo infila. A questo punto sono io quella sdraiata, e lei quella in ginocchio di fronte, con il suo accento straniero mi chiede se sento, le dico mi piacerebbe mi leccasse, risponde che non può.
Poi non dice più nulla, ma si sbilancia col suo corpo da dea verso i miei seni e un po’ li lecca. Si ritira su, ed io mentre la guardo e la tocco con un vibratore piantato in mezzo, le chiedo quanti uomini si fa la sera, mi dice di media tre, quattro, cinque quando va bene. Non riuscivo a pensare quella cifra moltiplicata per anni. Era giovane, ma già da un po’ al lavoro.
Lei mi sta vicino mi masturba ed io affondo la faccia sul cuscino leopardato prima di venire, ma la devo guardare in ultima battuta, e finisco. Si riveste in fretta come se nulla fosse successo, come farsi trovare ancora nuova ai prossimi occhi. Scende dalle scale con me, la notte come la strada è ancora lunga.
Non sapevo nulla di Mirella. C’è gente che pur conoscendola benissimo si lascia dimenticare nel presente e gente che non si conosce affatto e ci resta impressa fino a morte anche se non si rivedrà più.
Lei sarà tra queste.
Qualche mese dopo vado a lavorare come cameriera, avevo vent’anni, mi capita in un pomeriggio di vedere un quotidiano di Bologna.
Prostituta uccisa, trovato il corpo senza vita in un fosso. Io non ero riuscita a fargliele, ma c’era la foto. Non era il suo nome.
Ma era lei, Mirella. Marinella di lacrime di sangue. La mia Rockets.
Ci sono morti in cui lo spreco è incontenibile.
Non ho dormito quella notte. Ho avuto il disgusto del sesso, della povertà umana. Del vuoto che pervade. Del tutto che non ritorna. Della rabbia e dell’impotenza. Della preistoria fatta odissea. Dell’orgasmo fallito. Ho pianto per una settimana, il giorno dopo il quotidiano aveva già altri titoli.
2 commenti:
...spero tu sia consapevole di quanto la tua verità mi arricchisca ! ^^*^^
Svolazzin caro ! :) ci sentiamo presto
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