26 aprile 2010
Condanna a vita
"... Noi siamo condannati a vivere una vita, e dunque la nostra è una condanna a vita, per uno o più delitti, chi lo sa?, che non abbiamo commesso, oppure che commettiamo di nuovo per altri che verranno dopo di noi. Abbiamo acquistato in capacità di resistere, nulla ormai può farci capitolare, non siamo più attaccati alla vita ma nemmeno la svendiamo a un prezzo troppo basso, questo era quello che avrei voluto dire, ma non l’ho detto. Tutti qualche volta alziamo la testa credendo di dover dire la verità o quella che sembra la verità, e poi di nuovo la incassiamo nelle spalle. Questo è tutto."
"La cantina", Thomas Bernhard
22 aprile 2010
Pittore, se vuoi la fama diventa mediocre
"Pittore se vuoi la fama diventa Mediocre", si intitolava l'articolo della pagina di cultura del Giornale di mercoledì 21 aprile un articolo di Luca Beatrice che approvo parola per parola e non mi serve nemmeno tanto commentare perché è come se mi leggesse nel pensiero, e ovviamente non solo a me, che qualche perplessità sull'arte concettuale contemporanea mi viene.Così tutto l'apparato che riguarda la cultura attuale naturalmente.
di Luca Beatrice
Sciatto, trasandato, incerto e con una punta di arroganza: questo è il tipo di artista esaltato dai critici Per i quali vendere molti quadri è da piccolo borghese. Eppure in Italia i giovani di valore non mancano
Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro figurativo di buona (anche se non eccelsa) qualità. Appendiamolo per una settimana alle pareti del ristorante pizzeria Marechiaro. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono sbrigativamente «commerciali». Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto o di un museo egualmente conclamato. Attenzione, sempre lo stesso quadro!
Nel primo caso avremo l’elaborato domenicale di un dilettante, che per hobby ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a cento-duecento euro. Nel secondo, il dipinto aumenterà di valore ma non troppo (qualche migliaia di euro), perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso, il quadro prenderà la strada maestra del successo, lodato dagli addetti ai lavori, inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, in quanto il suo valore è stato certificato da Bonami o da Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube. Di tutto sentiremo discutere, tranne che di qualità intrinseca dell’opera.
Dalle prime avanguardie del Novecento è andato infatti radicalizzandosi quell’atteggiamento per cui è il contesto, e solo il contesto, ad attribuire valore all’arte. Per secoli i musei erano pinacoteche piene zeppe di quadri: capolavori, maestri, scuole, epigoni e croste che entravano di diritto a far parte delle collezioni pubbliche in quanto superfici dipinte, dunque riconosciute da tutti come arte. Poi è arrivato il gesto geniale e provocatorio di Marcel Duchamp il quale, piazzando un orinatoio dentro una sala bianca, ci ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì, bastava la certificazione del contesto e l’accordo tra i diversi attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri.
Entrando oggi in uno qualsiasi dei santuari globali dell’arte contemporanea ci troveremo di fronte a una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste o forse avanzi di piastrelle, readymade postecnologici, scritte... e a nessuno verrebbe mai il dubbio che non si tratti di arte. Se stanno lì dentro, nel museo, sono arte e basta. E se sono cose brutte e inutili? Chissenefrega! Il paradosso è che la pittura, oggi, è l’ultimo readymade. In quanto linguaggio artistico per definizione e per storia, deve «meritarsi», faticando assai, l’inclusione in posti così cool and trendy che con il passato non vogliono aver niente a che fare.
Domanda: ma se sono un bravo pittore, come posso essere preso in considerazione dai curatori alla moda? Un bel casino, ragazzo mio! Intanto vedi di non essere troppo bravo, troppo capace e virtuoso. Sii sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipingi se puoi come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno ti dà del pittore, ribellati, guardalo in cagnesco e spiegagli che tu sei «un artista che usa la pittura». Ricorda: ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto «tormento ed estasi»; prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche galleria «di mercato» sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del commerciale. Se vendi parecchi quadri ti accuseranno di interpretare il cattivo gusto della piccola borghesia.
E allora? Se proprio ci tieni, almeno in apparenza rimani uno sfigato qualsiasi e comportati da artista, non da ragioniere. E non dire che hai dei soldi, sennò ti danno della puttana.
Altra regola importantissima: sostieni di produrre pochissimo, quattro o cinque quadri l’anno, perché il tuo stile è lungo, tormentato, difficile. E poi, altro must: non rimanere prigioniero della bidimensionalità, del quadro tradizionale, che lo capisce anche la massaia. Espanditi nello spazio, sfonda gli argini, contamina la superficie con materiali anomali, inserisci oggetti e, mi raccomando, ogni tanto fai una fotografia o un’installazione, da abbandonare lì per caso. E infine, ci vuole anche una discreta fortuna, perché l’accettazione di un pittore nel contesto dell’arte contemporanea spesso rappresenta un autentico mistero. Una che passa per essere davvero brava, e di conseguenza costosa, è la romagnola Margherita Manzelli. Tra i più giovani vanno di moda Pietro Roccasalva, imitatore senza particolare qualità e fotocopiatore di Bacon, Simone Berti, autore di strambi animali-macchina su fondo rigorosamente bianco. Secondo i critici killer della pittura, in Italia non ci sarebbe altro.
Invece ignorano o snobbano le decine e decine di ottimi pittori che in un Paese libero e non provinciale come il nostro godrebbero di ben altro trattamento. Alcuni di loro, ma senza esaurire l’ampia disponibilità, Beatrice Buscaroli e io li abbiamo invitati alla Biennale di Venezia nel 2009, e tra poco ne parleremo, contando che Vittorio Sgarbi faccia altrettanto nel suo Padiglione Italia 2011. Chi segnalare tra le decine di pittori «under quaranta» meritevoli oggi d’attenzione? Certamente nella linea che si ispira al disegno, all’illustrazione, alla sintesi e all’immediatezza, vanno considerati Gabriele Picco, Fausto Gilberti, Andrea Mastrovito, Laurina Paperina, Laboratorio Saccardi, Erica il Cane, Blu (questi ultimi due appartengono alla corrente dei nuovi graffitisti presentati nella mostra «Street Art, Sweet Art», del Pac a Milano nel 2007). Tra i pittori «puri» suggeriamo senz’altro di prestare attenzione a Gabriele Arruzzo e Manuele Cerutti, mentre tra coloro che usano questo linguaggio mescolandolo ad altri, la cosiddetta Expanded Painting, molto buono risulta il duo fiorentino Pieralli & Favi.
Luca Beatrice
Nel primo caso avremo l’elaborato domenicale di un dilettante, che per hobby ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a cento-duecento euro. Nel secondo, il dipinto aumenterà di valore ma non troppo (qualche migliaia di euro), perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso, il quadro prenderà la strada maestra del successo, lodato dagli addetti ai lavori, inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, in quanto il suo valore è stato certificato da Bonami o da Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube. Di tutto sentiremo discutere, tranne che di qualità intrinseca dell’opera.
Dalle prime avanguardie del Novecento è andato infatti radicalizzandosi quell’atteggiamento per cui è il contesto, e solo il contesto, ad attribuire valore all’arte. Per secoli i musei erano pinacoteche piene zeppe di quadri: capolavori, maestri, scuole, epigoni e croste che entravano di diritto a far parte delle collezioni pubbliche in quanto superfici dipinte, dunque riconosciute da tutti come arte. Poi è arrivato il gesto geniale e provocatorio di Marcel Duchamp il quale, piazzando un orinatoio dentro una sala bianca, ci ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì, bastava la certificazione del contesto e l’accordo tra i diversi attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri.
Entrando oggi in uno qualsiasi dei santuari globali dell’arte contemporanea ci troveremo di fronte a una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste o forse avanzi di piastrelle, readymade postecnologici, scritte... e a nessuno verrebbe mai il dubbio che non si tratti di arte. Se stanno lì dentro, nel museo, sono arte e basta. E se sono cose brutte e inutili? Chissenefrega! Il paradosso è che la pittura, oggi, è l’ultimo readymade. In quanto linguaggio artistico per definizione e per storia, deve «meritarsi», faticando assai, l’inclusione in posti così cool and trendy che con il passato non vogliono aver niente a che fare.
Domanda: ma se sono un bravo pittore, come posso essere preso in considerazione dai curatori alla moda? Un bel casino, ragazzo mio! Intanto vedi di non essere troppo bravo, troppo capace e virtuoso. Sii sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipingi se puoi come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno ti dà del pittore, ribellati, guardalo in cagnesco e spiegagli che tu sei «un artista che usa la pittura». Ricorda: ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto «tormento ed estasi»; prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche galleria «di mercato» sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del commerciale. Se vendi parecchi quadri ti accuseranno di interpretare il cattivo gusto della piccola borghesia.
E allora? Se proprio ci tieni, almeno in apparenza rimani uno sfigato qualsiasi e comportati da artista, non da ragioniere. E non dire che hai dei soldi, sennò ti danno della puttana.
Altra regola importantissima: sostieni di produrre pochissimo, quattro o cinque quadri l’anno, perché il tuo stile è lungo, tormentato, difficile. E poi, altro must: non rimanere prigioniero della bidimensionalità, del quadro tradizionale, che lo capisce anche la massaia. Espanditi nello spazio, sfonda gli argini, contamina la superficie con materiali anomali, inserisci oggetti e, mi raccomando, ogni tanto fai una fotografia o un’installazione, da abbandonare lì per caso. E infine, ci vuole anche una discreta fortuna, perché l’accettazione di un pittore nel contesto dell’arte contemporanea spesso rappresenta un autentico mistero. Una che passa per essere davvero brava, e di conseguenza costosa, è la romagnola Margherita Manzelli. Tra i più giovani vanno di moda Pietro Roccasalva, imitatore senza particolare qualità e fotocopiatore di Bacon, Simone Berti, autore di strambi animali-macchina su fondo rigorosamente bianco. Secondo i critici killer della pittura, in Italia non ci sarebbe altro.
Invece ignorano o snobbano le decine e decine di ottimi pittori che in un Paese libero e non provinciale come il nostro godrebbero di ben altro trattamento. Alcuni di loro, ma senza esaurire l’ampia disponibilità, Beatrice Buscaroli e io li abbiamo invitati alla Biennale di Venezia nel 2009, e tra poco ne parleremo, contando che Vittorio Sgarbi faccia altrettanto nel suo Padiglione Italia 2011. Chi segnalare tra le decine di pittori «under quaranta» meritevoli oggi d’attenzione? Certamente nella linea che si ispira al disegno, all’illustrazione, alla sintesi e all’immediatezza, vanno considerati Gabriele Picco, Fausto Gilberti, Andrea Mastrovito, Laurina Paperina, Laboratorio Saccardi, Erica il Cane, Blu (questi ultimi due appartengono alla corrente dei nuovi graffitisti presentati nella mostra «Street Art, Sweet Art», del Pac a Milano nel 2007). Tra i pittori «puri» suggeriamo senz’altro di prestare attenzione a Gabriele Arruzzo e Manuele Cerutti, mentre tra coloro che usano questo linguaggio mescolandolo ad altri, la cosiddetta Expanded Painting, molto buono risulta il duo fiorentino Pieralli & Favi.
Luca Beatrice
20 aprile 2010
Freak Schow
Ieri notte mi è capitato di guardare quel format demenziale chiamato Italian got talent show, dove si presentavano dei ragazzi, delle persone ad esibirsi portando le proprie abilità, che andavano dall'esibizione canora, lancio di coltelli, e svariate altre, ovviamente ogni esibizione doveva passare sotto il giudizio della giuria formata dalla De Filippi, Gerri Scotti, e un produttore della Sony.
Mi ha colpito la presenza di alcune persone chiaramente molto problematiche, e in questo senso trovo molto poco rispettoso che si trovassero lì, non perché non sia giusto che quelli problematici se ne stiano in tv e quindi che se ne stiano a casa propria, ma perché in quel contesto non diventano che un fenomeno da baraccone o meglio da baldraccone potremo dire. Con gran divertimento del pubblico, ma con grandi danni a loro che pensano davvero di ricevere una vera gratificazione nel trovarsi lì, magari con qualche aspettativa nel facile agognato mondo dello spettacolo, "in fin dei conti ci vanno quasi tutti e molti fanno pure i soldi, perché io no?" e da lì aspettativi e rancori irrisolti, vedendo già i loro occhi delle gran aspettative e dei gran amareggiamenti alle bocciature, o alle critiche dei tre giurati. E su questo è veramente il sistema innescato che è lurido alla base. un tempo c'era la corrida e tutto si fermava lì, oggi ci sono questi programmi con l'idea che dopo puoi essere chiamato a destra o manca, quindi esistere per quelli che ti guardano.
Fatto sta, che in questo format oltre gli altri disperati si presenta un ragazzo vesito da chef. Nel bancone preparato ci sono diversi ingredienti dentro delle ciotole. In queste ciotole LUI aveva scelto di mettere cibo per cane, cibo per gatti, nutella, limone, e altri ingredienti che non ricordo. Entra tutto saltellante dicendo che la sua esibizione consiste nella scelta di alcuni di quei ingredienti da parte della giuria, una volta scelti lui li avrebbe messi in un mixer e una volta frullati - avrebbe ingurgitato il preparato e in base a questo avrebbe improvvisato l'esibizione che sarebbe stata giudicata.
De Filippi e Scotti si rifiutano di proseguire l'esibizione mentre il terzo della giuria per senso di provocazione fa mescolare il cibo per gatti con la nutella perché no, un pò di limone che c'ha le vitamine dice.
Il ragazzo chef frulla il tutto con un bicchiere d'acqua e tra gli sguardi schifati sta per ingurgitare, lo fermano appena in tempo.
Ecco, senza saperlo quel ragazzo è stata la metafora esatta di ciò che provoca l'idea della televisione d'oggi nei ragazzi special modo, ovvero: "datemi da bere anche la merda purché mi diate la possibilità di farmi vedere" quindi secondo la loro logica di esistere.
Questa è stata davvero come performance davvero perfetta come metafora per esprimere quello che più penso oggi su questi fenomeni.
La De Filippi stessa che non amo più per ciò che rappresenta che per quello che è, gli dice che quello non è il modo giusto per farsi notare, anche se certo un bella gran mano lei lo dà perché questo distorto esibizionismo abbia spazio. La risposta del ragazzo è stata: "almeno qualcuno avrò colpito".
e questa è l'ennesima testimonianza che non importa come e perché, l'importante è apparire anche se da Freak morale.
Mi ha colpito la presenza di alcune persone chiaramente molto problematiche, e in questo senso trovo molto poco rispettoso che si trovassero lì, non perché non sia giusto che quelli problematici se ne stiano in tv e quindi che se ne stiano a casa propria, ma perché in quel contesto non diventano che un fenomeno da baraccone o meglio da baldraccone potremo dire. Con gran divertimento del pubblico, ma con grandi danni a loro che pensano davvero di ricevere una vera gratificazione nel trovarsi lì, magari con qualche aspettativa nel facile agognato mondo dello spettacolo, "in fin dei conti ci vanno quasi tutti e molti fanno pure i soldi, perché io no?" e da lì aspettativi e rancori irrisolti, vedendo già i loro occhi delle gran aspettative e dei gran amareggiamenti alle bocciature, o alle critiche dei tre giurati. E su questo è veramente il sistema innescato che è lurido alla base. un tempo c'era la corrida e tutto si fermava lì, oggi ci sono questi programmi con l'idea che dopo puoi essere chiamato a destra o manca, quindi esistere per quelli che ti guardano.
Fatto sta, che in questo format oltre gli altri disperati si presenta un ragazzo vesito da chef. Nel bancone preparato ci sono diversi ingredienti dentro delle ciotole. In queste ciotole LUI aveva scelto di mettere cibo per cane, cibo per gatti, nutella, limone, e altri ingredienti che non ricordo. Entra tutto saltellante dicendo che la sua esibizione consiste nella scelta di alcuni di quei ingredienti da parte della giuria, una volta scelti lui li avrebbe messi in un mixer e una volta frullati - avrebbe ingurgitato il preparato e in base a questo avrebbe improvvisato l'esibizione che sarebbe stata giudicata.
De Filippi e Scotti si rifiutano di proseguire l'esibizione mentre il terzo della giuria per senso di provocazione fa mescolare il cibo per gatti con la nutella perché no, un pò di limone che c'ha le vitamine dice.
Il ragazzo chef frulla il tutto con un bicchiere d'acqua e tra gli sguardi schifati sta per ingurgitare, lo fermano appena in tempo.
Ecco, senza saperlo quel ragazzo è stata la metafora esatta di ciò che provoca l'idea della televisione d'oggi nei ragazzi special modo, ovvero: "datemi da bere anche la merda purché mi diate la possibilità di farmi vedere" quindi secondo la loro logica di esistere.
Questa è stata davvero come performance davvero perfetta come metafora per esprimere quello che più penso oggi su questi fenomeni.
La De Filippi stessa che non amo più per ciò che rappresenta che per quello che è, gli dice che quello non è il modo giusto per farsi notare, anche se certo un bella gran mano lei lo dà perché questo distorto esibizionismo abbia spazio. La risposta del ragazzo è stata: "almeno qualcuno avrò colpito".
e questa è l'ennesima testimonianza che non importa come e perché, l'importante è apparire anche se da Freak morale.
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17 aprile 2010
Dormire
Il sonno, il sonno, quando posso dormire soprattutto nel pomeriggio con quel senso di abbandona, di oblio che porta, e di straniamento, per tutte quelle volte che avrei voluto scrivere quel che provavo senza riuscirci, un passaggio di André Gide, dice alla perfezione quello che sempre averei voluto dire...
[…] fu un periodo inquieto di attesa e come la traversata di una palude. Sprofondavo in prostrazioni di sonno da cui non mi guariva il dormire. Andavo a letto dopo il pranzo; dormivo, mi svegliavo ancor più stanco, l’animo intorpidito come per una metamorfosi. Oscure operazioni dell’essere: travaglio latente, genesi di ignoto, parti laboriosi; sonnolenze, attese; come le crisalidi e le ninfe, io dormivo; […] Ah! Venga finalmente - supplicavo - la crisi acuta, la malattia, il dolore vivo! E il mio cervello si paragonava a cieli di burrasca, ingombri di nuvole grevi, dove si respira a fatica, dove tutto è in attesa del lampo che squarci quegli otri fuligginosi, carichi d’umore, che celano l’azzurro. Quanto durerete, attese, e una volta finite, ci rimarrà di che vivere? - Attese! attese di che? gridavo. Che poteva accadere che non nascesse da noi? E che poteva accadere di noi che già non conoscessimo?
André Gide, Les nourritures terrestres
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13 aprile 2010
La tecnologia mi fa dannare
E' un periodo che la tecnologia mi fa dannare.
Word non effettua il salvataggio automatico, il blog non carica le immagini (mi tocca scrivere il testo salvarlo in bozze e caricarlo da un altro pc),come se non bastasse c'è un virus che ogni tanto si innesca e mi fa scrivere le parole al contrario. Son quelle cose che mettono ciliegine sulle torte, che ieri tra l'altro non mi è riuscita, una bella torta molle di banana poco cotta. Uffa,.
Naturalmente causa malfunzionamenti word mentre correggevo il libro ho perso un'ora mezza di correzione, scrivere le ricette sul blog senza l'immagine mi sembrava una cosa inutile, e poi nemmeno la soddisfazione di potermi consolare con la torta di banana che non si è cotta - così e mentre scrivevo una mail incazzata ad una mia amica per tutte queste cose le parole andavano all'indietro e non riuscivo proprio a scrivere.
Insomma non mi rimaneva proprio che tornarmene a letto, e facendo il conto se ogni volta che insorge una delusione vado a letto ho fatto media e da quando esisto non vado mail di media sotto le dieci ore giornaliere di sonno.
Kafka scriveva i migliori racconto nel dormiveglia, mi dico sempre.
Che a me anche vengono delle immagini che mi paiono bellissimi nei dormiveglia, ma non sono Kafka e nemmeno uno scarafaggio, avrebbe pensato Doestoevkij, insomma mi tocca accontentarmi dopo il dormiveglia di andare a farmi un tè, con poca teina, sennò gli attacchi di panico fanno festa, poi si pensa alla cena che pensar a cosa cucinare è la cosa migliore delle giornata, poi un film e poi a letto, così facendo due conti a 30 quasi 31 anni ho dormito quello che le persone sane che lavorano sanamente di solito dormono fino ai 40 anni, Se uno potesse avere indietro gli anno che ha dormito accidenti !
ogni tanto lo penso, se il tempo passasse solo quando siamo svegli, penso che non supererei i 15 anni.
Ma l cose non vanno così, ed io sono molto arrabbiata con gli informatici che devono fare computer e programmi indistruttibili.
10 aprile 2010
08 aprile 2010
Distributore di sogni
Ieri aspettavo il treno nella stazione di Parma, e lì dal bar vicino c'erano i distributori delle palline, quelle che contegno la sorpresa.
Un tempo non ce n'erano molti, ora se ne vedono d'ogni sorta, palline da 1 a 2 euro anche più.
Era uno dei miei sogni preferiti riuscire a scassinare uno di quelle macchinette quand'ero più piccola, in realtà lo sogno anche di recente, ed era la cosa più bella quando nel sogno con diverse strategie, (dipendeva dal sogno) riuscivo a far uscire le palline e metterle come in un ladro proprio nel sacco per poterle aprire una ad una e guardarmi con calma la sorpresina che come un pò nell'uovo di pasqua di solito non è granché. (la strategia n! era colare la plastica con un accendino affinché si creasse un buco abbastanza grande da estratte le palline)
Nella realtà quelle volete che mia mamma mi concedeva una moneta, ero felicissima, di non sapere quale sarebbe stata la prossima pallina ad uscire, era sempre una piccola emozione che i rallegrava una qualche mezz'ora
-guardi dentro che regali propone il contenitore
-inserisci la moneta
-speri che ti esca quello più bello che hai adocchiato, o magari meglio.
pensavo proprio ieri, che la vita è un pò tutta come quel giro di palline con la sorpresa; siamo sempre lì' a metterci dentro degli euro di speranza, e in base a quello che sappiamo, conosciamo, vediamo nel mondo del possibile, speriam ci capiti giù una pallina fortunata, magari la più bella, prima poi.
Così negli affetti, nel lavoro, nelle realizzazioni.
Inutile dire che nella maggior parte dei casi la cosa più bella è aspettare che la pallina scenda. Dopo lo stupore, quella baggianata ci può deludere, o entusiasmare un qualche minuto. Poi Tutto tace. E di nuovo cerchiamo altre monete.
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06 aprile 2010
sms 1
Un messaggio del mio amico Antonio che mi pareva bellissimo.
Un sentimento non si prova, si indossa.
Antonio Facci Tosatti
05 aprile 2010
Giudizio universale
Uno dei miei testi preferiti di Camus, la Caduta - uno dei migliori monologhi mai esistiti...
Albert Camus "La caduta" ed Bompiani pp 62
"Creda ma me, le religioni sbagliano a partire dall'istante in cui fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava a giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l'aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. Per loro non esistono circostanze attenuanti, anche la buona intenzione viene imputata come delitto".
Albert Camus "La caduta" ed Bompiani pp 62
01 aprile 2010
Il sogno di Maria
Prima di incazzarmi definitivamente (per la gente che mi frega le cose dai blog, interviste, scritti e articoli vari senza citare mai la fonte, tipo link al blog e mio nome cognome, senza naturalmente avvisarmi - motivo per cui ho messo la scritta sotto l'immagine del blog, e che ingenuamente dovrebbe fungere da avvertimento "ehì amico stai facendo una cazzata, ma non sarà la più grande della tua vita"), vi voglio augurare una splendida Pasqua il più possibile tranquilla e serena, e questa canzone di De Andrè, Il sogno di Maria che pulcia e rispulcia rimane tra le mie preferite in assoluto di tutta la sua discografia, pezzo che mi scuote e mi commuove, preso da uno dei miei due album suoi preferiti "La buona Novella"
Il sogno di Maria
"Nel Grembo umido, scuro del tempio,
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso;
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese - Conosci l'estate
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.
Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade,
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.
Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.
(... e l' angelo disse: "Non
temere, Maria, infatti hai
trovato grazia presso il
Signore e per opera Sua
concepirai un figlio...)
Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci.
Con le ali di prima pensai di scappare
ma il braccio era nudo e non seppe volare:
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un altra vita,
foglie le mani, spine le dita.
Voci di strada, rumori di gente,
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.
Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno ma sonno non era
- Lo chiameranno figlio di Dio -
Parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre."
E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.
E tu, piano, posati le dita
all'orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.
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